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Rende :: La Calabria e l'emergenza ambientale: il Rotary di Rende prende posizione.

RENDE :: 29/09/2009 :: L’emergenza ambientale in Calabria e, in particolare, nella provincia di Cosenza è un problema sempre più sentito e dibattuto, soprattutto in questi giorni di indignazione popolare per il ritrovamento delle navi affondate cariche di ogni specie di rifiuti, tossici e radioattivi. La procura di Paola procede con le indagini e sperando che il tutto non venga miseramente insabbiato, farà luce su quanto accaduto a causa dell’intreccio perverso fra pezzi di Stato, manager di aziende pubbliche e private inqualificabili e criminalità organizzata che non si è fatta scrupoli di devastare il nostro territorio.  

In questo sfondo cupo e poco rassicurante si sono svolti venerdì 25 Settembre 2009 i lavori di un convegno organizzato dal Rotary di Rende che aveva come tema il problema delle acque in Calabria, dal punto di vista della qualità e della pericolosità in occasione delle piogge abbondanti che flagellano il nostro delicato e fragile territorio. Le emergenze eclatanti, infatti, non devono far dimenticare ciò che emergenza non è, la gestione del territorio, che, invece, si colloca, o almeno si dovrebbe collocare, all’interno dell’ordinaria amministrazione delle strutture dello Stato (centrale e periferico) che hanno questo delicato e importantissimo compito.

I relatori sono di assoluto e indiscusso prestigio e i loro contributi hanno in pieno soddisfatto le attese di tutti, addetti ai lavori e cittadini comuni sensibili alle tematiche ambientali.

I lavori si sono svolti nel centro congressi dell’Hotel Executive a Quattromiglia, popolosa frazione di Rende, ubicato nei pressi dell’uscita dell’autostrada SA-RC, introdotti dal presidente pro-tempore ing. Emanuele Fiorino. Al fine di non togliere tempo alle relazioni il pr
esidente si è limitato a dare un caloroso saluto ai convenuti e a ricordare che il Rotary ha scelto di prendere a cuore il problema del territorio, promuovendo una serie di campagne di sensibilizzazione al tema.

Il primo relatore è stato il prof. Francesco Calomino, ordinario di Idraulica alla facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria, non nuovo a questo tipo di interventi. Il professore ha parlato approfonditamente dei temi della qualità delle acque, intervenendo sul dibattito che si è aperto in seguito all’approvazione da parte della Regione Calabria del Piano di Tutela delle Acque, uno strumento fondamentale per indirizzare gli investimenti e catalizzare le risorse verso le priorità di carattere regionale. Il docente, però, ha puntualizzato il fatto che questo piano “nasce già vecchio” essendo basato sul decreto legislativo 152/99, oggi superato dal 152/2006 – Codice dell’Ambiente – che ha modificato alcuni importanti parametri ambientali. Il piano di tutela, inoltre, non conterrebbe indicazioni necessarie sul trattamento delle acque di prima pioggia, che tutte le ricerche di carattere scientifico identificano come una importante fonte di inquinamento. Il Dipartimento di Difesa del Suolo dell’Università della Calabria, di cui il prof. Calomino è stato direttore, studia da circa 10 anni questo problema, in associazione a diversi prestigiosi centri di ricerca nazionali, come il Politecnico di Milano, dimostrando la pericolosità di queste acque, che in passato venivano definite “bianche”, in contrapposizione alle acque “nere” provenienti dagli scarichi domestici. L’incremento esponenziale del traffico, il rilascio di olii e il depositarsi sul manto stradale di particolato conseguente alla combustione non completa degli idrocarburi (benzina e gasolio) rendono estremamente pericoloso per l’ecosistema l’immissione di queste acque nel reticolo idrografico. Il piano di tutela non prevede trattamenti particolari al contrario di quelli di altre regioni più evolute (ad esempio Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) che provvedono alla raccolta e al trattamento di queste acque già da diversi anni.

Un altro importante tema trattato è riferito alla necessità di completare la rete di raccolta delle acque nere in quanto, allo stato attuale non più dell’80% degli abitanti risultano serviti. Questo deficit di collettamento rende indispensabile l’utilizzo dei pozzi neri (in teoria banditi dalla legge attuale) rendendo incontrollabile il successivo trattamento.

In realtà dice il prof. Calomino attualmente non si conosce in modo approfondito la rete, mancano mappe e si ricorre ancora alla conoscenza empirica dei “fontanieri” comunali con il supporto di carte topografiche molto spesso non aggiornate: si continua a operare come 100 anni fa. Le attuali conoscenze informatiche sarebbero di grande aiuto perché facilitano la gestione di enormi moli di informazioni e potrebbero essere costruiti dei GIS in cui riversare tutte le conoscenze per supportare meglio le scelte di intervento.

L’ultimo tema trattato ha riguardato la scarsa disponibilità economica prevista nel piano: meno di 200 milioni di euro, giudicati assolutamente insufficienti per risolvere questo problema.

Il secondo intervento è stato tenuto dal prof. Salvatore De Rosa, ordinario di Ingegneria Sanitaria e Ambientale alla facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria, un altro luminare di tematiche legate all’ambiente, in particolare alle acque di scarico. Il prof. De Rosa ha confermato in toto le precedenti affermazioni del prof. Calomino, inserendo, però, una nota di ottimismo, legata alla grande capacità che hanno i corpi idrici calabresi, fiumi e mari, di autodepurarsi. Il prof De Rosa ha chiarito che la quasi totalità dell’inquinamento del nostro territorio è legato ai reflui urbani, eccetto che pochi siti, come Crotone o quelli in cui criminalmente sono stati scaricati rifiuti tossici. Questa tipologia di inquinamento è facilmente recuperabile in quanto è “sufficiente” eliminare il problema, gli scarichi non trattati, affinché anche gli effetti siano completamente recuperati in pochissimo tempo. Basti pensare, infatti, che i reflui urbani domestici sono costituiti prevalentemente da materiale organico che la natura da sola smaltisce grazie all’azione digestiva dei batteri presenti naturalmente sul terreno e nei corsi d’acqua. Di fondamentale importanza, a questo riguardo, è l’adeguamento degli impianti di depurazione e la corretta gestione e manutenzione. Su questo punto il prof. De Rosa è stato molto risoluto: è necessario che gli impianti vengano progettati e realizzati correttamente ma che poi vengano gestiti in modo adeguato. Riferendosi in particolare al caso dei paesi costieri ha posto l’accento su come i gestori dell’impianto debbano utilizzare le conoscenze di tipo statistico per prevedere i picchi di presenza turistici e preparare in modo adeguato gli impianti a sopportare la gran mole di reflui liquidi urbani da smaltire durante la stagione estiva. Gli impianti costieri, infatti, sono per lo più costruiti a moduli, ovvero con più vasche di dimensioni diverse, all’interno delle quali si sviluppano le reazioni biochimiche di abbattimento della sostanza organica. Una vasca per essere pienamente efficiente necessita di un’adeguata preparazione prima che arrivi il carico inquinante, in modo da contenere un numero sufficiente di batteri che poi provvedano a depurare le acque reflue. Per rendere chiaro come funziona un impianto di depurazione, inoltre, il prof. De Rosa, mostrando sensibilità nei confronti della parte pubblico composto da non addetti ai lavori, ha fatto l’esempio della preparazione dello jogurt in casa: per poterlo produrre è necessario avere i fermenti lattici vivi (i batteri dell’impianto di depurazione), un ambiente adeguato alla loro riproduzione e, infine, il latte per dare nutrimento (i liquami).

Prima di salutare la platea il prof. De Rosa ha posto l’accento ancora una volta sulle gestioni “avventurose” che ci sono state in questi anni. Nelle vesti di consulente dell’autorità giudiziaria, che ha messo sotto sequestro diversi impianti nell’estate passata, ha avuto la possibilità di rendersi conto di come tante volte è la mancanza di preparazione dei soggetti gestori a determinare il cattivo funzionamento degli impianti che, per la verità, sono abbondanti nella nostra Regione. Uno delle attività frequenti riscontrate, per esempio, è il versamento dei reflui della lavorazione delle olive: sono estremamente dannosi in quanto tossici per i batteri degradatori della sostanza organica. Molto spesso per scarsa conoscenza dell’argomento succ
ede che i reflui dei frantoi vengano direttamente versati nelle pubbliche fognature determinando un deficit di funzionamento degli impianti. Le aziende produttrici dovrebbero tassativamente trattare questi reflui prima di versarli in fognatura.

Il terzo relatore è un altro personaggio di spicco nel panorama tecnico calabrese: l’ing. Giovanni Ricca, segretario dell’Autorità di Bacino Regionale della Calabria.

Prima di parlare del tema a lui assegnato, il dissesto idrogeologico, stimolato da quanto detto dai precedenti relatori ha iniziato il suo discorso confermando il fatto che il Piano di Tutela nasce già vecchio, si basa su dati di monitoraggio di diversi anni fa che dovrebbero essere condotti non in modo occasionale ma continuo. Il monitoraggio del territorio, delle acque e dei suoli è un’attività che non può essere condotta sporadicamente, per periodi più o meno lunghi, ma dovrebbe essere condotta in maniera continua, perché solo così si hanno a disposizione un numero sufficiente di dati tali da consentire un’analisi dettagliata e approfondita della realtà ambientale della nostra regione. Lo sforzo fatto dalle strutture tecniche della Regione, ARPACAL in testa, è encomiabile ma non può e non deve essere periodico ma continuo: l’amministrazione regionale dovrebbe garantire le necessarie coperture finanziarie per questo.

L’ing Ricca si scaglia anche contro la fallimentare esperienza del commissario per l’emergenza ambientale; il fallimento non è riferito semplicemente al fatto che tante opere non sono state completate o sono state mal concepite ma soprattutto al fatto che non ha lasciato in dote alla regione di una struttura tecnica adeguata né metodologie di governo dei problemi ambientali. L’affondo è condotto, inoltre, sullo stato di precarietà in cui versano le strutture tecniche regionali. Non è possibile che strutture così delicate e preziose siano oggetto di continui stravolgimenti sul piano delle professionalità che vi operano: i tecnici oltre a essere preparati culturalmente per il ruolo che devono svolgere devono essere incardinati all’interno della struttura per consentire di acquisire quelle competenze che nessuna scuola può impartire e solo il lavoro assiduo e il confronto con le problematiche può dare. In una sola espressione si può dire che la struttura tecnica deve garantire continuità gestionale.

L’ing. Ricca porta come esempio virtuoso l’ARPACAL: un ufficio operativo di cui la regione si è dotato, composto da professionalità stabilmente incardinate nel ruolo e che quindi possono accrescere continuamente la loro esperienza esperienza da mettere a disposizione della comunità.

Per quanto riguarda i dissesti idrogeologici sono state proiettate alcune diapositive riassuntive e indicative del disastro accaduto lo scorso anno a cavallo fra Novembre 2008 e Febbraio 2009, quando in poco meno di 4 mesi sono mediamente caduti oltre 1500 mm di pioggia (si tenga presente che la media nazionale è di 1000 mm all’anno, mentre in Calabria è di poco superiore a 900 mm l’anno).

Tutta questa mole d’acqua ha messo a dura prova i reticoli idrografici e gli instabili versanti calabresi. La regione Calabria ha rastrellato fondi per circa 700 milioni di euro che dovranno essere spesi per consentire la messa in sicurezza delle aree più a rischio (si tenga presente che mediamente per questo tipo di interventi lo Stato centrale garantisce una copertura di circa 8 milioni di euro l’anno).

In questi mesi le strutture tecniche regionali, con l’ausilio scientifico dell’Università della Calabria e del CNR, stanno conducendo una serie di sopralluoghi approfonditi per definire lo stato di consistenza dei danni dovuti alla precedente alluvione e le zone potenzialmente a rischio alluvione e frane, al fine di indirizzare al meglio le somme messe a disposizione.

L’ing. Ricca ha anche informato dell’imminente completamento della prima bozza del piano di gestione delle acque redatto dalle autorità di bacino regionali della macroarea “Sud Italia”. Un’ultima osservazione ragionata è stata condotta riguardo al dibattito aperto sulla possibilità di ricostituire i presidi idraulici sul territorio, una struttura decentrata che funga da monitoraggio continuo dei corsi d’acqua, per consentire di pianificare e coordinare al meglio gli interventi di manutenzione, decisivi per evitare gli effetti disastrosi delle piene fluviali e coordinare al meglio gli interventi in caso di calamità naturali.

A seguito di questo intervento è salito sul palco l’ing. Pallaria, presidente dell’ATO1 Cosenza, le cui esternazioni hanno contribuito a completare il quadro dello stato di degrado in cui versano gli uffici regionali. Con il suo stile schietto e diretto non ha usato mezzi termini per denunciare la mancanza di coordinamento degli investimenti sul territorio e la necessità di una “governance” autorevole che stabilisca le priorità di intervento, sulla base delle risultanze territoriali.

Non si può continuare con questa frantumazione delle competenze che non giova a nessuno e rende impossibile a qualunque soggetto riuscire a pianificare gli interventi e molto spesso o si interviene non tenendo conto delle reali esigenze del territorio e degli impianti oppure si opera una duplicazione degli interventi. Questo succede in primo luogo per mancanza di coordinamento. Conferma il fatto che il piano di tutela delle acque è vecchio perché è stato iniziato dal commissario nel 2003 e la sua adozione, sei anni dopo, è dovuta al fatto che si rischiava una ulteriore procedura di infrazione nei confronti della Regione Calabria da parte dell’Unione Europea. L’adozione di questo piano, quindi, da parte di questa giunta regionale è un fatto importante, un punto di partenza significativo ma ha un significato fortemente burocratico e amministrativo, perciò si deve iniziare da subito a pensare di aggiornarlo, con nuovi monitoraggi e soprattutto con la certezza di conoscere le reali disponibilità finanziarie.

Già da tempo, dice l’alto dirigente e ora anche sindaco di Curinga (centro ubicato fra Lamezia Terme e Pizzo Calabro) è stata proposta una legge regionale sulla governance delle acque.

Porta come esempio paradigmatico della mancanza di coordinamento fra Regione e ATO il caso del depuratore di Santa Maria del Cedro (CS). Questo importante impianto è stato oggetto di lavori di manutenzione straordinaria che hanno potenziato enormemente la sua capacità di smaltimento. Fino alla scorsa estate la co-gestione armonica Comune-ATO aveva garantito un funzionamento ineccepibile, tanto che il collaudo dell’Agosto 2008, condotto sotto la supervisione regionale, aveva dato un esito positivo oltre che numerose sono state le inchieste giornalistiche che hanno confermato il suo ottimo funzionamento. Dall’ottobre dello scorso anno, però, la regione ha avocato a se la gestione dei depuratori, scaricando sui comuni la piena responsabilità operativa senza dare agli stessi i necessari mezzi finanziari e i necessari supporti tecnici per un’efficace gestione. La conferma di tutto ciò è il disastro di questa estate su tutta la costa calabrese e, anzi, come soggetto gestore giudiziario dei depuratori, si è potuto rendere conto del fatto che il tirreno cosentino, rispetto alle zone più meridionali (Lamezia, Vibo Valentia) sembrava un’oasi felice.

L’unica nostra salvezza, conclude l’ing. Pallaria, rinforzando ciò che era stato detto dall’ing. Ricca, risiede in una presa d’atto che le strutture tecniche devono essere gestite e coordinate da soggetti che sappiano di ciò di cui si parla, ovvero chi viene chiamato per lavorare e gestire questi uffici deve avere competenze specifiche: rimanendo in tema di depurazione le persone chiamate a gestire questi impianti devono avere una base culturale e scientifica per risolvere i problemi che quotidianamente nascono e per pianificare le priorità di intervento, non possono essere scelti genericamente in base alla semplice laurea.

La seconda parte dell’intervento è destinata alla illustrazione delle ATO, che la legge “Galli” istituisce come soggetti che hanno funzione di programmazione sul “ciclo integrato delle acque”.

In questi anni si deve decidere (si sarebbe già dovuto fare) i soggetti gestori di tutti gli impianti, dalle reti di distribuzione acquedottistiche (visto che l’adduzione idrica è in capo alla SORICAL) fino alla depurazione passando per le condotte di fognatura. Attualmente, denuncia l’ingegnere confermando ciò che era stato dichiarato dal prof. Calomino, non si conosce completamente la dotazione infrastrutturale in questo ambito. Non si conoscono le reti, i pezzi speciali, lo stato di usura, e quant’altro. Sono anni, insiste, che si è chiesto alla regione una dotazione finanziaria per consentire di mappare tutte le reti, ma allo stato attuale non sembra esserci nessuna possibilità di ottenerla.

L’ultimo intervento tecnico è stato condotta dal prof. Massimo Veltri, già senatore della Repubblica nel quinquennio 1996-2001, ordinario di Idraulica presso la facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria e presidente nazionale dell’Associazione Idrotecnica Italiana, importante associazione di carattere scientifico cui fanno parte professori e professionisti che hanno a cuore il problema delle acque. Secondo il prof. Veltri viviamo una fase storica paradossale: l’urgenza di intervenire sulle acque, sia in termini qualitativi che per la prevenzione dei dissesti idrogeologici corrisponde a una pesante penalizzazione delle discipline idrauliche in termini di insegnamenti. Sembra che a fronte di emergenze sempre più eclatanti ci sia una sorta di sottovalutazione del problema da parte degli organi decisionali: è paradigmatico il fatto che l’attuale Ministro dell’Ambiente, nella sua relazione alle Camere, non abbia mai pronunciato la parola “acqua”.

Il problema, secondo il luminare, è ancora più importante di questo e riguarda la caduta verticale del ruolo sociale degli ingegneri e dei professionisti in genere. Sembra quasi che i professionisti siano stati marginalizzati o meglio si siano auto-marginalizzati rispetto ad altre importanti istituzioni, quali, per esempio, quelle politiche. Questo pezzo importante di classe dirigente sembra aver delegato tutto alla politica, anche il ruolo di denuncia su scelte che hanno dell’incomprensibile. Questo è inaccettabile, i professionisti hanno il diritto ma soprattutto il dovere morale e civile di dire quello che pensano e la classe politica, responsabile delle decisioni, ha il dovere di ascoltarli ma soprattutto il diritto di ricevere suggerimenti. Il prof. Veltri dichiara di essere rimasto allo stesso tempo soddisfatto ma anche inorridito dalle affermazioni dell’ing. Ricca e dell’ing. Pallaria, due importanti dirigenti di questa Regione che hanno parlato di frammentarietà, approssimazione, difetto di risorse, persone che occupano posizioni importanti che non sanno quello che stanno facendo. Inconcepibile. Racconta, inoltre, di una importante relazione della corte dei conti (di quattro anni fa) in cui sarebbe scritto che la Regione Calabria non arriva a spendere il 2% delle risorse disponibili dall’Europa. Come si fa a chiedere continuamente fondi allo Stato centrale se non si è capaci di spendere i soldi già disponibili?

Il problema fondamentale è che il meccanismo burocratico è lento e farraginoso e la qualità progettuale molto spesso lascia a desiderare.

L’attenzione per il territorio, quindi, è messa all’ultimo posto nella scala delle priorità. Ma non è stato sempre così, ricorda il docente, che nel ’72, per esempio, è stata fondata l’Università della Calabria e all’interno di essa il Dipartimento di Difesa del Suolo; negli stessi anni è stato fondato l’IRPI, che si occupa di ricerche applicate alla protezione del territorio. Era chiaro nella mente illuminata del legislatore che ci dovesse essere una particolare attenzione a questo aspetto. Oggi, al contrario, sembra che la conoscenza sia un disvalore. E’ così in tutti i campi, lo è maggiormente nei problemi di gestione del territorio. E’ emblematico il fatto che l’Italia è soggetta a un’infrazione da parte dell’Unione Europea perché non ha ancora adottato
una direttiva comunitaria sulla difesa del suolo. La direttiva in questione è stata scritta sulla falsa riga di importanti leggi italiane e ora si è arrivati all’assurdo che lo Stato italiano non riesce a recepire nel proprio ordinamento una direttiva europea ispirata a leggi dello stesso Stato italiano.

La causa di questo assurdo non senso sta proprio nel fatto che si trovano a gestire certi processi persone che non hanno la necessaria preparazione e competenza.

La conclusione della serata è stata affidata al prof. Renato Olivito, anch’egli docente all’Unical, che, vista l’ora tarda, si è limitato a ringraziare i convenuti, i relatori e a ribadire la scelta da parte del Rotary di investire sulla sensibilizzazione ai temi territoriali, ribadendo la convinzione che prima di lamentarsi di qualcosa bisognerebbe chiedersi se ciascuno fa davvero il proprio dovere.

Giuseppe Maradei