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Morano Calabro :: Alle stampe l’ultima fatica di Biagio Giuseppe Faillace.

Lo scrittore Moranese si presenta con una favola: Il topolino che voleva cantare

MORANO CALABRO :: 16/11/2009 :: “Il topolino che voleva cantare”. E’ il titolo dell’ultimo lavoro dello scrittore Biagio Giuseppe Faillace, per i tipi di Folco Editore, Cosenza, realizzato nei laboratori multimediali del Liceo Scientifico “Mattei” di Castrovillari. Si tratta di una suggestiva favola sostenuta da coloratissimi disegni magistralmente ordinati e tali da renderne la lettura avvincente e piacevole.

Nel testo si intersecano – come afferma la prof.ssa Assunta Morrone nel proemio – due diverse tradizioni della fiaba, la popolare e la colta. E sono proprio questi gli elementi cardini sui quali l’autore elabora la sua trama, semplice e di grande impatto emotivo.

Conscio del potere della parola e di come essa veicoli valori, idee, saperi nel medesimo istante in cui abbandona la carta e si riversa sul lettore, Faillace, erudito comunicatore, umanista tra i più quotati della regione, si propone questa volta ad un pubblico giovanile, ma non solo. E con il consueto garbo e la facilità lessicale che distingue le sue pubblicazioni, cela sotto la cenere caustica della metafora gli interrogativi che assillano l’uomo nel suo incedere quotidiano.

Protagonista della novella un vivace topolino il quale, causa dei suoi guai, rischia di morire sbranato dai gatti, ma alla fine, escogitando un astuto stratagemma, avrà salva la vita. Di più non verghiamo sul soggetto, è appena il caso di procurarsi l’enchiridio e immergersi nella storia. Vogliamo invece soffermarci sulla facilità, comune, del resto, agli scrittori più sensibili, reiterata ed ampiamente riconosciuta ed apprezzata dalla critica letteraria, con cui Faillace viaggia nel tempo e nello spazio, attingendo non solo alla sua esperienza di formatore, e già questo basterebbe ad incorniciare le numerose fatiche didascaliche da lui prodotte, ma soprattutto ai buoni sentimenti, alla sensibilità, alla generosità.

Nella narrazione appare evidente la trasposizione dei difetti dell’uomo. Utilizzando la figura retorica della prosopopea, lo scrittore lascia parlare animali antropomorfi, e con spiccata ironia palesa vizi e fragilità delle creature. La morale? Più che morale diremmo un monito, velato, ma neanche tanto, a voler considerare seriamente il destino dell’uomo. Il concetto è ribadito con precisione scientifica in un passaggio della storia, allorché si afferma che nessuno vuol morire… Il lettore è così catapultato nel dramma per antonomasia, la morte, ritenuta però dal saggista moranese un frammento della vita perpetua e non una sterminatrice che annichilisce e spezza i legami. Non si tenta affatto di esorcizzarla o sminuirne il significato, tutt’altro. Pur restando fedele all’intendo di divertire, Faillace crea personaggi dai quali traspare un riverente amore per la vita. Si dirà: una favola è pur sempre una favola, figlia di fervida fantasia… e tal è il prodotto di cui ci occupiamo in queste colonne. Ci mancherebbe, lungi da noi il desiderio di manipolarla corrompendone il contenuto sbarazzino o indurre in errore chi vi si appresta, esibendo fischi per fiaschi. E nondimeno in essa, nella favola, nel “topolino che voleva cantare”, si va oltre il brio e la spontaneità insite nel soggetto, oltre il canovaccio del racconto; ravvisiamo l’ingegno e la creatività di una persona che con stile sobrio, mai lezioso né eccessivamente tecnico, peggio, intrappolato nei soverchianti canoni estetici della stesura classica, resistendo responsabilmente all’impeto delle mode, in questo come negli altri lavori, accresce i talenti affidatigli regalando ai lettori una produzione di altissimo pregio, innervata da una eccellente levità. In queste pagine si legge la quiete di un uomo che si assoggetta serenamente alla caduca immanenza che tutto accomuna, speranzoso e ragionevolmente proteso ai lidi immutabili dell’eternità.

Nel caso specifico Faillace, coadiuvato nel progetto editoriale da Francesco Chiarelli, Filomena Cerchiara, Maria Lucia Zuccaro, Gian Piero Pugliese, realizza un elaborato gravido, come detto, di simpatiche e pertinenti immagini policromatiche, pensate per incoraggiare bimbi e adulti, e forse i secondi più dei primi, a tuffarsi nel paradosso dell’immaginazione, quasi sostituendosi ai protagonisti, sostenuti dalla successione delle parole e dall’avanzare incessante dell’epilogo, immancabilmente lieto.

Tutto benfatto. Non è un caso se al volumetto sia stato allegato un compact disk: è sufficiente introdurlo in un presidio multimediale per ascoltare la vicenda abilmente narrata dal più puntuale degli interpreti: l’autore.

Ci piace concludere prendendo in prestito, si scusi dell’ardire, le locuzioni con cui Assunta Morrone, a sua volta citando la prefazione di Luigi Capuana alle Fiabe, chiude il preambolo al libretto: “Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non soltanto un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d’arte. Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che lo han prodotto. Senza dubbio non mi sarebbe passato mai pel capo di mettere audacemente le mani sopra una forma di arte così spontanea, così primitiva e perciò tanto contraria al carattere dell’arte moderna”.