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Lamezia Terme :: La normativa sui distretti rurali e il quadro applicativo in Calabria.

INTRODUZIONE

LAMEZIA TERME :: 23/08/2010 :: La costituzione dei Distretti Rurali va intesa come iniziativa finalizzata a rendere i territori calabresi più competitivi nel quadro dell’attuale mutevole scenario dei contesti regionale, nazionale ed europeo, captando al meglio le opportunità di sostegno finanziario previste da alcune specifiche norme.  In Europa aggregazioni  che, esplicitamente o implicitamente, richiamano il concetto di distretto rurale, le troviamo in diversi Paesi europei.

In Germania abbiamo i Landkreis (circondario rurale) che svolgono, sì, tutte le attività tipiche di un distretto, ma in realtà sono delle amministrazioni locali inserite nella gerarchia degli Enti territoriali di quella Nazione, collocandosi a livello intermedio tra Regione e Unione di Comuni. Di fatto possiamo considerarli come un qualcosa di molto simile alle nostre Province, pur rimanendo sempre di ridotte dimensioni e non essendo mai eccessivamente estesi. Una situazione molto simile la ritroviamo in Gran Bretagna; anzi, bisogna dire che la storia delle politiche distrettuali inizia proprio qui già a partire dalla fine del XIX secolo, con le prime grandi riforme che ripartivano il territorio nazionale in unità amministrative locali, identificate per la loro vocazione prevalente (urbana, industriale, rurale, marittimo-portuale, ecc.). Da allora, mediante successive riforme legislative, si è giunti all’attuale configurazione: la maggior parte del territorio non classificabile come urbano o industriale, è riunito in una grande categoria detta dei distretti non-metropolitani (Shire), a loro volta sub-unità di un ente intermedio simile alle nostre province, denominato Contea. L’ultima, in ordine di tempo, ad approcciare le politiche distrettuali, avendo però alla spalle una lunga esperienza sulle forme aggregative delle amministrazioni locali, soprattutto delle più piccole, è la Francia che, nel 1999, con un’apposita legge, consente una nuova forma di unioni territoriali tematizzate su peculiarità rurali e dove trovano posto anche i privati (fino ad allora, tendenzialmente esclusi dalla partecipazione a tali strumenti e denominati Pays. Questi sono, tra quelli europei, i modelli organizzativi più simili ai distretti italiani e, avendo da parte dello Stato un forte sostegno sia economico che di assistenza tecnica, stanno rapidamente moltiplicandosi, raggiungendo già diversi esempi di eccellenza. Da sottolineare, però, che tutti gli esempi esteri citati, seguono una logica di indirizzo pubblico molto forte dove, di fatto, si tratta di intraprendere percorsi già individuati e decisi dallo Stato (approccio top-down). Una via forse efficace e rapida, considerando lo stato di maturità ed efficienza dei Governi dei nostri cugini europei, ma più difficile da immaginare per il nostro Paese, molto meno efficiente sul fronte dell’organizzazione pubblica. La formula, invece, fortunatamente scelta dal nostro legislatore, anche se spesso non breve, più incerta ed insicura, è del tutto peculiare, veramente inno
vativa e dove trova ampio spazio l’autodeterminazione, l’autoproposta e la dimensione volontaristica delle comunità locali (approccio bottom-up). Forse nessuno saprà mai definire qual è la strada migliore ma c’è un dato certo: i distretti produttivi italiani sono i più studiati al mondo per la loro efficacia e per il loro perdurare nel tempo e sono spesso presi ad esempio per altre realtà anche extra-europee. Di fatto, un primato tutto italiano che attrae e fa scuola. Forse l’affermazione del modello italiano sta nel fatto che un organizzazione di sviluppo locale come quella distrettuale, ha bisogno imprescindibilmente di una forte affezione, responsabilizzazione e compartecipazione di ognuno degli attori (operatori pubblici, privati, cittadini) che fanno parte di quell’ambito territoriale interessato e questo aspetto probabilmente è più vicino a un nostro modo di essere e intendere le cose.”

 

LA NORMATIVA NAZIONALE

In Italia l’inizio delle politiche in favore dei distretti, intesi secondo il concetto moderno di libere aggregazioni di ambiti produttivi coincidenti con un dato territorio e con obiettivi di realizzazione di “sistemi”, tesi al rafforzamento del quadro socio-economico e finalizzati, prioritariamente, a contrastare gli effetti della globalizzazione dell’economia, risale al 1991, con riferimento al solo settore industriale (L.317/1991).

A seguito delle esperienze distrettuali positive, questa configurazione è stata estesa anche all’agricoltura. I distretti rurali (abbreviati in “DR”) e agroalimentari di qualità (abbreviati in “DAQ”), istituiti con il D.L. 228/2001, rappresentano, in ordine di tempo, l’ultima declinazione della categoria dei distretti produttivi.

Tale decreto riporta testualmente all’articolo 13:

“ 1. Si definiscono distretti rurali i sistemi produttivi locali di cui all’articolo 36, comma 1, della legge 5 ottobre 1991, n. 317, e successive modificazioni, caratterizzati da un’identità storica e territoriale omogenea derivante dall’integrazione fra attività agricole e altre attività locali, nonché dalle produzione di beni o servizi di particolare  specificità, coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali“

“ 2 Si definiscono distretti agroalimentari di qualità  i sistemi produttivi locali, anche a carattere interregionale, caratterizzati da significativa presenza economica e da interrelazione e interdipendenza produttiva delle imprese agricole e agroalimentari,nonché da una o più produzioni certificate e tutelate ai sensi della normativa comunitaria o nazionale, oppure da produzione tradizionali o  tipiche”

Tra  le due tipologie , quello rurale è una forma particolarmente interessante per le aree interne che, in generale, presentano un patrimonio molto  diversificato (ambientale, paesaggistico, turistico, artigianale, agricolo, di piccola industria, ecc.), spesso ricco e fortemente attrattivo ma senza una specializzazione evidente che li possa caratterizzare da un peculiare punto di vista produttivo.

Le norme del Decreto Legislativo 228/2001 identificano i distretti rurali sulla base di parametri socio-economici che riconoscono l’inscindibilità e l’interdipendenza dei fattori culturali tradizionali ed antropologici con quelli produttivi nei sistemi locali. Lo stesso Decreto, tuttavia, rimanda alle singole Regioni l’emanazione di uno specifico strumento normativo per l’applicazione nei rispettivi contesti amministrativi-territoriali.

 

Tabella 1

STATO DI APPLICAZIONE DEL D.LGS 228/2001 A LIVELLO REGIONALE

Regione

Applicazione

D.lgs. n.228/01

Legge Regionale

di riferimento

Valle d’Aosta

NO

 

Piemonte

SI

LR n.26/2003

aggiornata con la nuova LR n.29/2008

Liguria

NO

solo LR n.42/2001 sui distretti florovivaistici

Lombardia

SI

DGR 7 agosto 2009, n. 8/10085

(appl. LR n.1/2007 – art. 4)

Prov. Trento

NO

 

Prov. Bolzano

NO

 

Veneto

SI

LR n.40/2003

Friuli V. G.

NO

 

Emilia-Romagna

NO

 

Marche

NO

DdL in definizione

Toscana

LR n.21/2004 (con regolamento attuativo)

Umbria

NO

 

Lazio

LR n.1/2006 (con regolamento attuativo)

Abruzzo

SI

LR n.18/2005

Molise

NO

DdL in Commissione consiliare

Campania

NO

 

Puglia

NO

DdL in Commissione consiliare

Basilicata

NO

solo LR n.1/2001sui distretti industriali comunque utilizzata per distretto agricoli

Calabria

LR n.21/2004


aggiornata con la nuova LR n.6/2009

Sicilia

NO

solo LR n.20/2005 sui distretti agroalimentari

Sardegna

NO

 

Fonte: Associazione dei Distretti Rurali Italiani Gennaio 2010

 

TABE

Seppure, ad oggi, non tutte le Regioni  (Tab. 1) hanno recepito la normativa nazionale e la traduzione operativa dei concetti contenuti nella legge, i recenti interventi legislativi sia a livello nazionale che regionale (vedi la Calabria), con un rafforzamento delle potenzialità indubbiamente superiori a ogni altro strumento di cooperazione aggregata a scala territoriale, inducono, oramai, a considerare il distretto rurale più che una possibilità o un’opportunità, una scelta di fatto obbligata e di massima convenienza per qualsiasi contesto locale che si ponga veri obiettivi di sviluppo a lungo termine.

Per meglio comprendere le potenzialità in tal senso di un distretto rurale, è sufficiente  sottolineare che specifiche norme introdotte dal 2006 e rafforzate con gli ultimi interventi legislativi dell’estate 2009, riservano in maniera esclusiva a un’organizzazione di tipo distrettuale la possibilità di concordare, con le Agenzie Fiscali competenti per ciascun territorio, livelli di tassazione fissi e privi di controlli per un triennio. E, ancora, di contrattare con gli organi centrali degli istituti bancari (non quindi con le filiali territoriali), linee di credito agevolate e omogenee per tutti i partecipanti al distretto. Infine, a un organismo gestionale di distretto, formalmente riconosciuto, possono essere concessi, da parte di altre amministrazioni centrali e periferiche di Stato e Regioni, ruoli autorizzatori preventivi e di gestione di banche dati e fonti di informazioni utili alla facilitazione delle fasi di avvio di attività economiche ed imprenditoriali.

I DISTRETTI RURALI IN CALABRIA

L’impostazione  del Decreto Legislativo 228/2001  è stata ripresa dagli strumenti legislativi normativi messi a punto dalle Regioni, inclusa  la regione Calabria. Questa, con la Legge Regionale n. 21 del 13 ottobre 2004, –  Istituzione dei distretti rurali e agroalimentari di qualità – Istituzione del distretto agroalimentare di qualità di Sibari BUR Calabria n. 19 del 16 ottobre 2004), recepisce la normativa nazionale e all’ Art. 5 indica le modalità per l’istituzione dei Distretti Rurali. Con successive leggi di modifica L.R. 31 Marzo 2009, n. 6 sono state dettagliate le procedure per la presentazione delle istanze di candidature dei territori, organizzati in comitati promotori, che intendono adottare il riconoscimento di un distretto.  In particolare, il legislatore regionale, con la  nuova legge, si è posto l’obiettivo di superare le criticità della precedente normativa – più concentrata, a parere dello stesso legislatore, sui distretti agroalimentari di qualità a discapito dei distretti rurali – integrando la norma precedente con una più precisa determinazione degli aspetti procedurali per il riconoscimento di un territorio. Il distretto rurale, secondo la nuova legge, rappresenta un vero e proprio nuovo soggetto locale destinato a nuove forme di “governance” territoriale del proprio ambito, ovvero un organo di supporto ai processi di pianificazione, crescita e stabilizzazione di un’economia locale, che vede nella valorizzazione multifunzionale del proprio territorio la sua principale risorsa, strutturandosi mediante progettazione “multidimensionale” e su base vocazionale. La riqualificazione del territorio rurale nel suo complesso si pone come perno intorno al quale ruota la funzione stessa del distretto, mirato a valorizzare le peculiarità e le potenzialità locali insite nelle risorse paesaggistiche e naturali, nelle produzioni tipiche, nelle tradizioni sia economiche che storiche e socio culturali delle comunità rurali.

La legge regionale, attribuisce alla Giunta dell’Ente Regione, il compito di individuare eventuali comprensori eleggibili a distretto, sulla base di proposte, opportunamente sostenute da idonea documentazione, proveniente da partenariati locali, organizzati in comitati promotori. Di fatto, un processo di identificazione ed auto-candidatura a distretto “dal basso” (bottom-up).

L’art. 3 della legge, definisce poi i requisiti per l’identificazione dei distretti rurali, come di seguito riportato:

a) produzione agricola coerente con le vocazioni naturali dei territori e sia significativa in rapporto con l’economia locale;

b) presenza di un sistema consolidato di relazioni tra le imprese agricole e le imprese locali operanti in altri settori;

c) forte rilevanza dell’innovazione tecnologica ed organizzativa delle imprese agricole, nonché dell’assistenza tecnica ed economica e della formazione professionale sia soddisfatta dall’offerta locale;

d) integrazione tra produzione agricola e fenomeni culturali e turistici;

e) imprese agricole possiedono le risorse aziendali necessarie per attività di valorizzazione dei prodotti agricoli e del patrimonio naturale e forestale, nonché di tutela del territorio e del paesaggio rurale;

f) forte interesse delle istituzioni locali verso la realtà distrettuale a stabilire rapporti collaborativi e convenzionale con le imprese agricole e con quelle di altri settori locali.

Secondo i dettami dell’art. 5, spetta alla Giunta Regionale l’emanazione della delibera di riconoscimento del distretto, fissandone i termini (60 giorni dalla pubblicazione della pubblicazione del BURC) per la costituzione del soggetto gestore, ovvero la società di distretto. Questo è l’organismo che, entro 120 giorni, elabora e cura l’attuazione dello strumento di implementazione del programma principale del distretto (“Piano di Distretto”), sulla scorta delle indicazioni generali dell’Art. 7bis e degli indirizzi forniti dal Comitato di Distretto.

La disponibilità di una norma aggiornata e contenente elementi tecnici più definiti rispetto alla prima versione, ha immediatamente riaperto lo spazio per diverse iniziative in embrione di distretti che un po’ in tutto il territorio regionale, con diversi gradienti, si erano avviate subito dopo l’istituzione del DAQ di Sibari.

Su fronte dei DAQ , oltre a quello del crotonese, coincidente con l’intero territorio provinciale e che ha ottenuto il riconoscimento nella primavera 2009, altre aggregazioni hanno rinnovato rapidamente il percorso verso la candidatura da sottoporre alla Regione e tra queste troviamo almeno altre due iniziative considerabili mature: il DAQ del Lametino e quello del Vibonese.

Per ciò che riguarda la configurazione invece del distretto rurale, la situazione si era presentata già da subito dopo la legge del 2004, più incerta e lenta. Solo nell’area del Pollino, nel 2005, un gruppo di 15 comuni, prevalente montani, avevano optato per tale tipologia presentando, l’anno successivo, una prima istanza che però non ebbe risposta dalla Regione.

C’era infatti una diffusa idea (e in gran parte c’è tutt’oggi) che il Distretto Agroalimentare abbia maggiore robustezza e possibilità di sviluppo di un distretto rurale e tale incertezza si è rivelata il più delle volte un’inutile motivo di disputa interna e conseguentemente fattore di confusione e rallentamento dei percorsi di definizione delle candidature.

In realtà considerare un tipo di distretto (il DAQ appunto) superiore ad un altro (distretto rurale) è un serio errore, indubbiamente frutto della scarsa conoscenza di questi strumenti aggregativi. Un DAQ è certamente da preferire in un’area dove sono già presenti condizioni di agricoltura forte con diverse filiere ben avviate e un tessuto imprenditoriale denso e dove le aziende sono in regime di interscambio e cooperazione ben consolidato. In una tale situazione lo strumento distrettuale, servirà a fare il salto di qualità definitivo, assicurando all’insieme delle aziende, il miglior quadro operativo proprio in conseguenza di applicare tutte le agevolazioni sopra menzionate.

Ma quando l’ambito geografico in esame, non presenta tutte queste caratteristiche di intensità produttive, allora l’opzione per la forma distrettuale rurale è al contempo scontata ma ance la più conveniente.

Il DR infatti si propone come un grande contenitore dove trovano posto tutte le risorse e le produzioni oggetto di possibili azioni di valorizzazione, incluse, se presenti delle produzioni locali tipizzate, magari già organizzate in filiere. Il lavoro del DR però sarà orientato non solo agli aspetti delle produzioni agroalimentari ma a tutti i patrimoni che possono divenire fonte di opportunità di reddito e di sviluppo. Ed è proprio questa visione integrata ed ampia che lo contraddistingue e ne determina un’implicita forza che non ha nulla di meno di un DAQ.

Il messaggio sulla valenza specifica dei DR, è arrivato e si sta diffondendo in molte delle aree interne regionali che per loro natura presentano
le caratteristiche idonee per tale tipo di aggregazione.

In Provincia di Cosenza, tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, proprio usufruendo dell’esperienza tracciata dai 15 comuni del Pollino, ben tre DR in contemporanea sono stati auto-identificati dai partenariati che hanno dato vita ad appositi comitati promotori e divenuti poi in breve termine, altrettante candidature presentate alla Regione.

Così, con deliberazione della Giunta regionale del 25 marzo 20110 e pubblicato nel BUR Calabria il 30 aprile 2010 i tre Distretti Rurali (interamente compresi nel territorio della provincia di Cosenza) sono stati riconosciuti e istituiti con le seguenti denominazioni:

           Distretto Rurale del Pollino – versante Calabro (vale a dire la nuova versione, aggiornata e ampliata – 34 comuni – della precedente iniziativa del 2005) ;

           Distretto Rurale dell’Alto Jonio Cosentino (16 comuni);

           Distretto Rurale della Sila (19 comuni);

Tutti e tre i Distretti nascono come proposte elaborate e condivise dai partenariati locali, composti da Comuni, Comunità Montane, Enti Parco Nazionali della Sila e del Pollino, rappresentanze degli interessi economico-sociali del territorio. 

Nondimeno vanno segnalati altri casi di DR che stanno in questi mesi definendo i loro percorsi di candidatura, facendo ben sperare verso un recupero di considerazione di questo tipo di aggregazione distrettuale che in Calabria ha sicure prospettive di moltiplicazione.

Tra i progetti di DR con un trascorso più chiaro, troviamo quello dell’Alta Valle dell’Amato nel catanzarese; quello delle Serre Calabresi e dell’Alta Locride a cavallo tra le Provincie di Vibo Valentia, Catanzaro e Reggio; il DR montano del Basso Reggino e quello dell’Aspromonte occidentale – Valle del Tauro, tutte e due in Provincia di Reggio Calabria.

Tornando a riflessioni sui contenuti e impostazioni della Legge Regionale, di rilevante c’è senz’altro da evidenziare, l’approccio scelto dal legislatore calabrese.

Nella L.R. 21/2004 infatti si è voluto intendere questo strumento come forma di “governance” territoriale optando per un modello gestionale di tipo duale (il più efficiente in relazione all’architettura delle norme nazionali in materia di agevolazioni specifiche).

Per ciascun distretto pertanto, deve essere costituito un organismo di gestione “a due teste” composto da: 

• un organo di rappresentanza e di responsabilità, denominato Comitato di distretto, nel quale sono coinvolti tutti gli enti amministrativi locali (Comuni, Province, consorzi, comunità di vario genere, enti parco, ecc.), rappresentanti delle imprese delle associazioni di categoria, incluse le Camere di Commercio, delle Università e degli enti di ricerca, rappresentanti degli ordini professionali, dei sindacati  e delle associazioni di cittadini con adeguati livelli di rappresentatività;

• un organismo attuatore,  la Società di Distretto che raggruppa in maggioranza  le imprese e svolge le attività previste dal piano strategico di sviluppo del Distretto (Piano di Distretto), periodicamente concertato con il Comitato e la Regione.

Il Comitato di Distretto si occupa di svolgere tutti quei ruoli di indirizzo, supervisione e concertazione tra soggetti che hanno funzioni di interesse pubblico, collettivo, o di rappresentanza.

 

La funzione della Società di Distretto (ovvero l’entità effettivamente responsabile della concreta attuazione dei contenuti condivisi del Piano e in cui si esprime il tessuto produttivo privato locale), è quella di pianificare, gestire, coordinare e verificare le attività e la realizzazione dei progetti distrettuali. In particolare, le attività principali svolte sono:

– promozione del distretto (organizzazione e partecipazione a fiere ed esposizioni);

– ricerca di finanziamenti per lo sv
iluppo  di progetti;

– gestione dei progetti di ricerca e sviluppo finanziati;

– gestione dell’osservatorio del distretto;

– trasmissione di informazioni alle aziende;

– cura dei rapporti tra le aziende e tra queste e l’ente «distretto», stimolando la partecipazione alle attività distrettuali e la realizzazione di attività comuni, agendo come animatori e da punto di riferimento del distretto.

 

Uno scenario, quello venutosi a creare in Calabria, veramente ampio, interessante e stimolante ma dove le luci si sovrappongono ad ombre di incertezza, mancata chiarezza, scarsa iniziativa della Regione nell’assistere e affiancare i distretti nella loro più delicata fase: quella della nascita.

Molti sono gli impegni e i ruoli (primariamente di predisposizione e attuazione di politiche di settore) infatti che nel caso specifico attendono alla Regione e che non sono surrogabili da alcuno.

In questa fase, ad esempio, è urgentemente auspicabile un coinvolgimento intenso della stessa nuova Giunta Regionale per raccogliere sia tutti i segnali positivi che  in tal senso arrivano  dall’Europa sia per sintonizzarsi sulle decisioni in materia specifica che si stanno decidendo a Roma nei Ministeri che centralmente gestiscono politiche e fondi sugli strumenti dei distretti e delle filiere. Basti ricordare  che con la decisione del 10 Dicembre 2008, la Commissione UE ha assentito alla concessione degli Aiuti di Stato per l’attuazione dei contratti “di filiera” e “di distretto” (con riferimento al Decreto 2850 del 21/4/2008) aprendo finalmente concrete prospettive all’utilizzazione di strumenti innovativi per l’ammodernamento dell’agricoltura e lo sviluppo dei territori rurali, anche in relazione alle forti trasformazioni del settore ed agli emergenti orientamenti delle politiche. Si tratta, in effetti, di un riconoscimento indiretto dei distretti a livello europeo sicuramente destinato a imprimere un’accelerazione alla progettualità a livello locale e di comparti produttivi. Ma si  tratta soprattutto di un provvedimento che libera circa 800 milioni di euro di contributi, risorse importanti per i distretti rurali e agroalimentari di qualità e per tutte le aree rurali che possono dotarsi di questi strumenti.

In questo scenario e, soprattutto, in previsione del post 2013 già in discussione a Bruxelles, si conferma un crescente interesse per la “territorializzazione” delle politiche comunitarie come risposta efficiente alla sempre maggiore competizione sui mercati e a fronte di altre emergenze ambientali e climatiche, com’è stato evidenziato in occasione sia della Conferenza di Treviso, organizzata dal MIPAAF, “Le nuove sfide dello sviluppo rurale in Italia: tra Health Check e riforma del bilancio UE”, che della successiva Conferenza europea sullo sviluppo rurale svoltasi a Cipro “Le aree rurali dell’Europa in azione: di fronte ai cambiamenti di domani”. Proprio in questa fase favorevole, per dare concretezza alla formazione di distretti, appare importante ricordare che le zone montane, sicuramente collocabili nelle aree rurali intermedie e in quelle con problemi complessivi di sviluppo, secondo la zonizzazione delle aree rurali italiane prevista dal Piano Strategico Nazionale, sono più interessate ai Distretti rurali che ai distretti agroalimentari di qualità, per una serie di considerazioni a cui non fanno eccezione le aree rurali calabresi.

Sul fronte interno, invece, è indubbiamente necessario che la Regione, intervenga con un’azione di completamento della norma sui distretti, poiché  anche se l’aggiornamento operato nel 2009 è stato senz’altro positivo, molti nodi rimangono irrisolti. Nodi che possono mettere a serio rischio il percorso di distrettualizzazione del territorio agricolo-rurale della Calabria, dove in mancanza di regole assolutamente certe e chiare, può comportare una moltiplicazione confusa delle nuove aggregazioni con la possibilità concreta di realizzare poi strumenti inefficaci.

Per risolvere questi aspetti in breve tempo, c’è la strada di un regolamento attuativo a regia dell’Assessorato o della Giunta che risolva i molti punti lacunosi e insicuri dell’attuale norma regionale, dettagliando meglio tutti i percorsi attraverso i quali le candidature devono essere costruite prima e vagliate poi all’interno delle strutture regionali di competenza.

A cura di:

Matteo Guccione  (Segretario nazioanle dell’Associazione Nazionale dei Distretti Rurali Italiani).

Adolfo Rossi (Esperto in Sviluppo Locale).